giovedì 7 gennaio 2010

La prigionia

Questo brano è tratto dal racconto "DEL PIGMALIONE DOTTOR FERRUCCIO FRANCESCHINI". Nomi e date sono di fantasia, ma la protagonista è mia nonna, e i fatti accaddero realmente, come testimonia questa lettera che mio nonno spedì alla sua amata alle carceri di Brescia l'8 dicembre del 1943.










Brescia, 8/12/1943


Dina mia adorata, stamane ho potuto vedere Papà che ho trovato abbastanza sollevato. Io ieri non sono andato a Milano perchè lì era festa [ndr. S. Ambrogio]. Vi andrò domani. Il nostro bambino [ndr. mio zio, fratello maggiore di mio padre] sta bene, l'altro ieri come tu mi avevi detto, gli ho comprato il camion grande con le botti ed era immensamente felice e riconoscente verso la sua mammina. Mangia sempre di buon appetito, esce tutti i giorni e gioca. Ora sono qui all'albergo Lottina: ti preparerò il pacco con le pantofole, l'occorrente per lavorare, 2 reggipetti, i calzettoni ecc. Ho qui anche le due giacche e i pigiami che però per ora non ti porto per non darti troppa roba che magari non ti serve. Occorrerà molto che tu ti organizzi per far lavare la biancheria sporca. Per domenica preparami un pacchetto di roba che porterò fuori a far lavare e che poi ti farò riavere. Stamane mi hanno dato solo il permesso per visitare Papà. Domenica mattina invece verrò a trovare te. Venerdì sarò di nuovo a Brescia con il dottor Casenghini [Ndr. Franceschini nel racconto]. Mogliettina mia, cerca di stare di buon animo, copriti più che puoi in modo di non prenderti qualche malanno. Fatti dare dei libri da leggere così il tempo ti passerà più in fretta. Non avere preoccupazioni per il nostro adorato bambino e per me. Noi ti pensiamo sempre e preghiamo Dio di farti tornare presto. Se puoi scrivimi e dimmi quanto ti può occorrere. Ti abbraccio assieme a Gianni con tanto affetto.
Tuo Tini


Sul biglietto di consegna dell'albergo Lottina puoi scrivere i tuoi desideri eventuali circa il mangiare. È tanto buona gente che nel limite del possibile cercheranno di accontentarti e di provvedere in mia assenza.  





[...] È il maresciallo dei carabinieri di Palazzolo, accompagnato da un uomo in borghese.
“Lei è la signora Serena Finzi, nata il 10 luglio 1918 a Milano? Coniugata Savinelli?”
“Sì”
“Favorisca il suo passaporto”     
Corro in camera a prendere il passaporto scaduto da un pezzo. Forse si tratta solo di un controllo, vogliono ritirarmi il documento.
“Chi c’è- chiede Alberto- Non è la voce del dottore”
È il maresciallo dei carabinieri, Alberto, ma non vuole te, sta tranquillo, solo il mio passaporto per misure di sicurezza”.
Alberto mi spinge da un lato e si precipita in anticamera.
“Sono dolente, ingegnere, ma ho l’ordine di arrestare la sua signora e di tradurla domattina alle carceri di Brescia”. Poi, rivolto a me: “Può portare con sé una valigia e una coperta: in guardina non c’è riscaldamento e nemmeno a Brescia”.
Io non parlo. Alberto invoca la legge sui matrimoni misti, supplica, fa presente le sue condizioni di salute, il bambino in tenera età, prega che almeno mi lascino con lui sino al mattino seguente. Il maresciallo guarda l’uomo in borghese che fa no con la testa.
“Si sbrighi” ordina l’uomo, mentre getto alla rinfusa in una valigia qualche golf e un po’ di biancheria. “Lei è la prima, ma ne abbiamo molti, e tra un’ora voglio aver ripulito il paese”.
Alberto, quando ricorda, dice che darebbe dieci anni della sua vita per trovarsi faccia a faccia con quell’uomo e lo riconoscerebbe tra mille. Io no, io ricordo solo il buon maresciallo che alle due di notte è venuto a portarmi un caffè e si è seduto accanto a me sul pagliericcio.
“Destino, destino gramo, signora! La prima, e senza telefono, così l’appuntato non ha potuto avvisare. Gli altri se la sono squagliata in tempo. Adesso l’uomo della questura di Brescia se n’è andato a dormire con un diavolo per capello, invece di esser contento. La legge c’è: lei ha sposato un ariano ed è un abuso di potere il suo, ma vai a farglielo capire, a quello lì. Un sadico, un pazzo”.
La notte passa, viene l’alba e arriva l’uomo in borghese. Sono la sua unica preda, mi odia, basta guardare come mi fissa. Chissà perché? Misteri dell’animo umano. A Brescia mi ci porta in treno. Non scambiamo parola. Alberto e il Roby sono sullo stesso treno, passeggiano davanti allo scompartimento chiuso. A Brescia l’uomo si ficca in un taxi e finalmente può consegnarmi nelle mani di un brigadiere al piano terreno delle carceri, stanza immatricolazione. Il brigadiere saluta cortese, mi fa accomodare, parla di arresto per misure precauzionali, controlla le generalità, mi fa premere il dito pollice, per l’impronta, ispeziona la valigia, ed infine devo consegnargli orologio, brillante e fede matrimoniale. Il tutto mi verrà restituito al momento del rilascio, si augura molto presto. Suona il campanello e arriva un appuntato: accompagnare la signora alla porta delle donne. Viene ad aprire una suoretta bellina. Mi guarda e più di me plaid e valigia di lusso (regalo di nozze dei colleghi di cantiere di Alberto). Chiude la porta traendo la chiave dal gran mazzo che porta legato alla cintura e comincia a salire una ripida e stretta scala di pietra grigia. Il fatto del plaid e della valigia si vede che non riesce a spiegarselo, e si ferma: “Senta- dice grattandosi il mento- io sono la suora guardiana da sei anni, lei è la prima che mi capita come se dovesse andare all’albergo. Di solito arrivano anche senza mutande. L’hanno arrestata alla stazione, eh! Magari già sul treno. Dove la mettiamo, che qui è tutto pieno. Adesso sentiremo la superiora. Che tempi! Che tempi!”
Si arriva a un ampio corridoio. Le porte hanno tutte lo sportello chiuso, il silenzio è assoluto. “Sono fuori all’aria- spiega la suora- altrimenti ci sarebbe un baccano d’inferno. Non ce la fanno quasi a reggersi in piedi, con la sbrodaglia che passa il carcere, ma chiacchierano in continuazione invece che risparmiarsi il fiato”.
“C’è una nuova, una nuova, con coperta e valigia, madre superiora” annunzia aprendo un uscio.
La superiora,donna robusta con occhi neri e vivaci, fa cenno alla suora di ritirarsi, dà una rapida scorsa al foglio che il brigadiere mi ha consegnato, scuote la testa.
“Cara signora, devo metterla per forza con le comuni. Di sopra, al raggio delle politiche, c’è pieno zeppo. Cella numero quattro. Il plaid può tenerlo, ma la valigia no: regolamento. Però se avesse bisogno di qualcosa, può chiedere.”
La prego di darmi qualche consiglio per il noviziato. Meglio riderci su, tanto a piangere non si risolve nulla.
“Stia ben attenta a non toccare le ciotole delle altre- dice- c'è sifilide e scabbia. Lavi bene la sua e la nasconda. Se ha bisogno, non faccia nel bugliolo, se la tenga, e quando proprio non ne potrà più suoni e suor Celestina l’accompagnerà al nostro gabinetto. Vada sempre all’aria anche se non ne ha voglia, e respiri a pieni polmoni. Prenda le pastiglie di chinino anche se le altre le gettano via. Può darsi che suo marito le mandi una vivandiera: la Lottina, un ristorante qui sotto, fa servizio. Divida, se vuole, ma si ricordi che dopo è un obbligo. Non si arrampichi mai alla grata verso sera, quando viene il carceriere a battere i ferri. Noi suore smontiamo alle sei. Qui non esiste rifugio, e le guardiane devono tenere le donne in cella: appena suona l’allarme diventano belve in gabbia, quindi dorma di giorno e stia sveglia di notte. Credo di averle detto abbastanza. Il resto lo imparerà da sé.”
Suor Celestina viene informata che non sono una ladra, ma un’ebrea. Non capisce: “Ebrea, ebrea” va borbottando tra sé mentre mi accompagna alla numero quattro e apre.
Sono dentro. Due ragazze sedute sul pagliericcio di sinistra alzano la testa. Una vecchia col fazzoletto in testa è sdraiata su quello di destra e dorme. Dove metteranno il mio, di pagliericcio, è un mistero. C’è puzzo di orina, di cavoli e di mestrui.
“Se vuol sedersi- dice la bionda, e si stringono- ce l’avrebbe una sigaretta?”
Già, le sigarette me le hanno lasciate, ed è una buona idea.
“Loro sono ospiti da molto?” chiedo accendendo.
“Da ieri sera” fa l’altra, la rossa. “Quelli della squadra del buon costume! Lei ci ha fatto vedere che aveva le sue cose, ma non c’è stato Madonna, e adesso puzza, e devo scusarla,ma non sa cosa farci, non ci aveva il ricambio dietro”.
“Cosa dici, Gigliola, che ci terranno dentro tanto?”
“Ma va là, fino a domani al massimo. Visita medica e via”
E io cosa ho combinato, se voglio dirlo, che qui la discrezione è di casa, chi vuole racconta e chi non vuole, acqua in bocca. Mentre racconto la vecchia si è svegliata e piange. La biondina va a farle una carezza. “Non piangere, nonna, vedrai che domani ti mandano a casa. Chi ha fame ha diritto di rubare, quando si tratta di roba da mangiare. Non ti terranno mica qui per quattro mele marce.”
“ Volevo portarle a casa ai miei nipoti, le mele, sono senza denti, neanche più uno in bocca, ce l’ho detto al brigadiere. E questa chi l’è” (parlano in bresciano come la Betta).
“Una disgraziata peggio di noi, nonna, che non ha fatto niente- risponde la rossa- è inutile che ti spieghi. Io ho fame. Il pranzo è in ritardo,oggi”. Ha appena finito di parlare che si sente un gran baccano e la voce di suor Celestina ammonisce:" Silenzio, donne, e in riga. Aspettare il turno, se no chiudo baracca e burattini.”
“Per lei- dice la suoretta guardiana- c’è una vivandiera della Lottina. Ecco la sua ciotola e il suo cucchiaio. Se vuole può prendere la sua pagnotta e la sua minestra, così la passa e fa opera buona.”
Alberto e il Roby sono nei dintorni, dunque, non mi abbandonano. Mi si allarga il cuore e nello stesso tempo ho vergogna: come farò a mangiare io, che non ho fame, e tra parentesi ipernutrita, in mezzo a queste povere affamate che si accalcano, litigano per un po’ di acqua calda con a bagno quattro patate e due carote. Quando si torna dentro la vivandiera è lì per terra. Esala un buon profumo di pollo arrosto, c’è una bottiglia di vino, posate, piatti, bicchiere di cartone.
“Posso?- dico alle mie compagne con un leggero inchino -Chi prepara la tavola?”
“Nonna, siamo fortunate: ci è capitata la Madonna” commenta la Gigliola, e la rossa propone di dare il petto, che è più tenero, alla vecchia sdentata. Sono simpatiche, le due ragazze. La vecchia è un po’ lagnosa, poveretta. Ripete continuamente che lei le mele le ha rubate per il suoi nipoti e al brigadiere ce l’ha detto. Si parla, si parla. Devo distrarmi, altrimenti il pensiero di Luca mi afferra, mi afferra l’angoscia, lo spettro del campo di concentramento tedesco. Già penso che sarebbe una fortuna poter rimanere in questo paradiso custodito da suor Celestina fino alla fine della guerra. Racconto della mia vita, dei miei genitori lontani in America.
“Chissà che meraviglia di prigioni, da farci la firma, che ci saranno lì in America- interviene la rossa -mica uno schifo come da noi: docce calde,pannolini di ricambio, il parrucchiere per farsi la messa in piega.”
Presto viene buio, non c’è luce elettrica. Fa freddo. All’improvviso mi prende una grande stanchezza. Suo Celestina si è dimenticata di portare il pagliericcio. Le ragazze a tutti i costi vogliono cedermi il loro, mi avvolgono nel plaid e se ne stanno silenziose. Quando mi sveglio saranno le sette del mattino, non ci sono più e la vecchia seduta sul pagliericcio piange, piagnucola la solita storia. Suor Celestina apre la cella, ma non c’è né baccano né concorso: sono sola davanti al lavandino di pietra grigia a metà del lungo corridoio. Apro il rubinetto, e l’acqua sfiorata col dito è gelida. Un fazzoletto ce l’ho, ma dopo si bagna, chi se ne frega! Chi se ne stropiccia, di lavarsi! Ritorno dalla vecchia. Mi racconta che quelle le hanno portate alla visita medica e non sono più tornate, che il carceriere voleva svegliarmi, mettermi sull’attenti, ma lo hanno supplicato e allora si è commosso. Che hanno detto di salutargli la Madonna. Vado a prendere il caffè d’orzo, ma il mio, nella confusione, si rovescia. Una me ne cede un po’ del suo e io me lo bevo, me ne frego dei consigli della superiora. Più tardi arriva suor Celestina e prende la Nonna: “Coraggio, che si va a casa, ma non rubarle più le mele, nonna, se no ti rimandano dentro.”
“Io non ho denti, non posso mangiarle le mele …”
Sono sola. Passeggio avanti e indietro per vincere il freddo, devo organizzarmi prima che arrivino nuove ospiti. Suono il campanello e chiedo alla suora se sia possibile prelevare dalla valigia un asciugamano, calze di lana, scarpe col tacco basso.
Un quarto d’ora dopo mi sembra di essere una regina: ho scelto il pagliericcio della vecchia, ci ho steso l’asciugamano di spugna, il plaid sopra, ci ho nascosto dentro un pettine, carta e matita. Al ritorno dall’aria respirata a pieni polmoni nel cortile delle carceri (ho già fatto un sacco di conoscenze, mi sono informata: di prigioniere ebree ci sono solo io, per il momento) sul pagliericcio vuoto sta distesa una ragazza giovanissima, esile, pallida, con due occhi immensi screziati d’azzurro. Il fratello renitente è scappato e hanno messo dentro lei al suo posto.
Dopo venti giorni sono un’anziana: so tutto, conosco tutti. La biondina è buona, tranquilla, pulita. Durante gli allarmi notturni non si muove dal suo pagliericcio. Ho potuto scrivere ad Alberto due volte. Al ventunesimo giorno, cosa insperata, si va a colloquio. Alberto è patito, invecchiato, una ruga gli solca la fronte. Luca sta bene. Il dottor Franceshini ha detto che farà tutto il possibile, ma ha bisogno di tempo. Mi prega di aver pazienza. Candrilli, il questore di Brescia, è a Roma, e a lui deve rivolgersi.
Ma sì! Io sto bene, come il marito può constatare, non mi manca niente, sono solo un po’ preoccupata per le spese del ristorante. Ho fiducia nel dottore e giudico cosa saggia non fargli premura. Le suore sono angeliche, la carceriera di notte, comperata con due paia di calze e un foulard, mi porta la bottiglia di vino della Lottina piena d’acqua bollente e da astemia eccomi diventata una ciucatera: l’alcool uccide i microbi e riscalda. Ho due inservienti fisse ai miei ordini: la Clelia infanticida, ma bisogna saperle come sono andate le cose, prima di condannare, e la Camilla pratiche illecite: mi vuotano il bugliolo, puliscono la cella per un po’ di pasta asciutta, qualche bicchiere di Chianti. Se sapessi che posso rimanere in prigione sino alla fine della guerra, ci faccio subito la firma. Dove sono arrivati gli Inglesi? Qui le notizie arrivano poco e a sbalzi. Alberto sorride alla fine, e dice che sono il solito fenomeno.
“Macché fenomeno!- rispondo- E’ una prerogativa della mia razza braccata, che si trasmette di generazione in generazione, quella di ambientarsi subito, di mimetizzarsi.”
Il giorno di Natale arrivano le patronesse, ci fanno una lunga predica e sarebbe meglio portassero viveri, indumenti. Il 27 sera suor Celestina mi ordina di far fagotto: mi passano al secondo piano tra le politiche. Ho il magone ad abbandonare la ragazza pallida che mangia solo se forzata e non sorride mai. La nuova cella è l’ultima del corridoio e non è chiusa a chiave. La levatrice, quella sagoma coi capelli mezzi biondi e mezzi neri, sta mettendosi i bigodini. Una cella di lusso, con tanto di specchio appeso al chiodo, materassi di lana.
“Salve- dice- si accomodi. E’ arrivata al momento giusto. Mi metterebbe i bigodini di dietro? Oggi ho il colloquio col mio avvocato”. Eseguo prontamente. “Grazie mille. Adesso andiamo a scaldarci dalla custode.”
Esce e io dietro. Insomma, l’ultima cella è una pacchia: si va, si viene, ci si lava con l’acqua calda, anche la levatrice ha la vivandiera della Lottina. Gliela manda, almeno quella, l’amico farabutto che si sta mangiando con donnacce il frutto del suo sacrosanto lavoro. Al processo è impossibile, ma fra due anni al massimo lei esce e lo frega, per Dio se lo frega: reato di concorso, e dopo le può aspettare, quel porco, le sigarette e il pranzo della Lottina.
A tutt’oggi primo febbraio sono la sola ebrea arrestata in tutto il circondario di Brescia. Questo mi fa bene sperare: chissà che si dimentichino, con tutte le altre gatte da pelare.
Il 14 sera suor Celestina capita in cella mentre la Tenti fa la ginnastica svedese per mantenersi snella e io sto scrivendo ad Alberto al lume di candela. Alzo gli occhi, e quelli della suora mi fissano gravi.
“Signora, raccolga la sua roba e venga con me.”
“Dove mi porta, suor Celestina?”
“Non lo so, signora. Giù al pianterreno, per ora. Ma prima deve fare la valigia.”
“Ciao bella, in bocca al lupo e su col morale” saluta la Tenti.
La superiora mi abbraccia, sussurra coraggio, pregheremo per lei, suor Celestina piange aprendo la porta del rifugio sicuro e consegnandomi a un carabiniere. La stanza immatricolazione, il brigadiere dell’altra volta. Saluta, apre un cassetto, mi ridà brillante, orologio, vera di matrimonio. Una firma, per favore. Non oso sperare.
“Posso sapere dove mi portano?”
“Ma certo” risponde ironico. Ne ho il pieno diritto: io ho la residenza a Milano e da Milano è venuto l’ordine di traduzione a San Vittore. Lì starò meglio e troverò compagnia più adatta.
Ormai è finita. So cosa mi aspetta.
Il brigadiere suona e arriva l’appuntato. Consegnare la signora al maggiore dei carabinieri in sala d’attesa. Ecco il foglio di via. Il cancello si apre. Davanti sta una camionetta. Mi ci cacciano dentro. Il maggiore balza al volante e partiamo. Mi accorgo presto che non stiamo attraversando il centro, si fila verso Bergamo sulla strada statale, il carabiniere mi leva le manette e il maggiore rallenta e si volta: “Riverisco. I miei ossequi, signora. Se tutto continua così tra un’oretta siamo al San Michele”, e io piango per la prima volta in due mesi.

6 commenti:

  1. meraviglioso Lia, io tra l'altro sono una appassionata di quel periodo storico e per quanto riguarda l'olocausto e tutto il resto, ho letto tantissime storie e documentazioni di quel periodo buio e terribile per tantissima gente che non aveva colpa di nulla...mi raccomando postane altre, grazie Elvira

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  2. Bellissimo. terribilmente vero. Letto in un fiato.

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  3. La prima volta che l'ho letto, trascrivendolo, sono rimasta colpita e affascinata anch'io. Ci sono cose della vita di mia nonna che ho scoperto in questi racconti e che mai avrei immaginato.

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  4. che donna, e che tempi da brividi...
    ciao
    elsa

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  5. Letto tutto senza fiato, sapere che era tua nonna mi ha fatto sentire tutto più vicino e reale.... periodo terribile che dobbiamo SEMPRE ricordare! Naty

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  6. Bellissimo, deve essere emozionante per te sapere tutti questi dettagli della via di tua nonna. Aid@

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